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ARTICOLO - Miti Del Giappone

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L’espressione Nihon no shinwa (日本の神話) ‘mitologia giapponese’ nasce nel periodo Meiji (1868-1912) su iniziativa di studiosi illuminati che vogliono dare a questi studi un taglio nuovo, di più ampio respiro e capacità comparativa. In quest’ottica la ‘materia mitologica’ (shinwa, 神話) diventa parte importante del patrimonio e del corredo culturale di ogni popolo del mondo. Sino ad allora, non si era soliti parlare di mitologia giapponese, ma di ‘studi sul Kojiki’ o di ‘studi sul Nihonshoki’ e questo significava anche conservare una dimensione ‘locale’ nel riferimento ai testi principali di questa letteratura, una scarsa apertura al mondo, un coltivare gli studi del ‘waga kuni no Kojiki’, ‘Descrizione degli antichi eventi del nostro paese’, un’espressione usata per indicare la mitologia giapponese citandone direttamente la fonte, il Kojiki.

 

La materia mitologica giapponese viene narrata, principalmente ma non solo, in due testi classici quali il Kojiki (Descrizione degli antichi eventi, 712 d.C.) e il Nihonshoki (Annali del Giappone, 720 d.C.). Accanto ad essi, non vanno dimenticate altre fonti, parte del patrimonio folclorico giapponese, come il materiale religioso, spesso molto antico, dei norito (祝詞, le preghiere e invocazioni shintō) o i fudoki (風土記), le ‘descrizioni della terra e dei costumi’, resoconti sulle usanze delle varie province (kuni, 国), compilati a partire dal 713 d.C. su ordine dell’imperatrice Genmei.

 

Il Kojiki nasce dal progetto dell’imperatore Tenmu (attorno al 672 d.C.) e viene completato alla corte di Nara sotto l’imperatrice Genmei (5 anno dell’era Wadō, 712 d.C.). L’opera è attribuita al funzionario di corte Ō no Yasumaro che avrebbe messo per iscritto i racconti tramandati oralmente sino a quel momento e a lui declamati da un cantore dalla memoria prodigiosa, di nome Hieda no Are. Da un lato, dunque Ō no Yasumaro svolse il ruolo dello ‘scriba’ (fumibito, 文人), lett. ‘uomo del pennello’, per estensione uomo di cultura, letterato (il termine odierno è bunjin, 文人). Per essere precisi, Ō no Yasumaro fu fumi no ōbito (文の大人) ossia il sovrintendente scrivano. D’altro canto, Hieda no Are rappresenta il kataribe (語り部), la persona incaricata di veicolare le tradizioni del passato mediante il canto, la declamazione orale.

 

I kataribe furono attivi sia in epoche pre-letterarie (ovvero quando ancora la scrittura non era stata introdotta) e in epoche successive, quando la scrittura era già stata introdotta, ma restava forte l’esigenza di recitare oralmente dei testi scritti, altrimenti poco fruibili dalle masse illetterate.

 

L’introduzione della scrittura avvenne verso il V sec. La data riportata dal Nihonshoki per questo evento è il 285 d.C. ma non è credibile, perché condizionata da ragioni dinastiche di prestigio e va invece spostata al V sec. Una data proposta è quella del 405 d.C., ma stabilirlo con certezza non è possibile. Di fatto, la lingua giapponese ebbe a disposizione la scrittura cinese come modello cui attingere per dare ‘forma scritta’ alla propria lingua. Ma il ritardo con cui la scrittura giunse sulle isole giapponesi non significa affatto che prima dell’introduzione dei kanji (漢字, ‘segni scritti cinesi’), il giapponese non esistesse come lingua, né tanto meno che non esistessero degli usi ‘codificati’ e di alto valore letterario per questa lingua. Nella prefazione stessa al Kojiki, vi è una chiara attestazione della presenza di ‘documenti orali’, fonti narrative tramandate oralmente di generazione in generazione.

 

La trasmissione delle informazioni avveniva dunque oralmente ed in particolare esistevano degli appositi gruppi o comunità (be, 部, anticamente anche chiamati tomo, 供) cui era assegnata la funzione di ‘raccontare’ (kataru, 語る) eventi importanti. Il narratore (kataribe, 語り部) viaggiava per il paese, raccoglieva e portava messaggi, registrava ‘oralmente’ e ‘mnemonicamente’ delle informazioni che poi avrebbe riportato al suo clan (uji, 氏) di appartenenza. Kataribe indica dunque tanto la corporazione (be) dei recitatori, quanto il recitatore come singolo individuo. Come tutte le corporazioni (be) del Giappone antico, anche la professione del kataribe era ereditaria e consisteva nella recitazione di antiche storie (furukoto, lett. ‘antichi fatti’ 古事) ed informazioni che venivano così trasmesse di generazione in generazione oralmente. Questi ‘cantori’ operavano in modo simile ai bardi della tradizione celtica, raccontando storie che esaltavano la stirpe del loro signore o del loro uji.

 

I kataribe memorizzavano e recitavano canzoni, gesta leggendarie, genealogie e miti locali; spesso avevano ruoli importanti a corte o nei cerimoniali religiosi che celebravano le origini sacre e le gesta eroiche della dinastia regnante. Il ruolo dei kataribe anche nella compilazione del primo testo scritto giapponese, il Kojiki appunto, è un fatto accertato e menzionato nella stessa prefazione all’opera. In questa prefazione, scritta in cinese, si dice che l’imperatore Tenmu accortosi del fatto che vi erano molti errori nei documenti e nelle storie ufficiali, errori che distorcevano la verità dei fatti, volle emettere un decreto affinché venisse redatta una nuova e corretta storia del regno giapponese. Tra l’altro anche la Cina aveva un’antichissima tradizione di testi storici, genealogie e cosmogonie scritte ed è probabile che i governanti giapponesi cercassero in questo modo di acquisire un analogo prestigio. Il Kojiki nasce, dunque, come il tentativo di dare forma scritta alla varietà dei miti e delle leggende orali, spesso contrastanti tra loro e dunque con la necessità di selezionare la variante che meglio si adattasse all’ordito testuale voluto dall’imperatore.

 

Le fonti del Kojiki furono dunque le leggende narrate dai kataribe e raccolte in varie aree del paese, ma anche alcuni documenti scritti come i teiki (帝記, cronache imperiali) o gli honji (本辞, ‘principi fondamentali’, ovvero il patrimonio di tradizioni e riti legati alla famiglia imperiale, alle famiglie degli uji principali e al folklore popolare). Nel 681 d.C., l’imperatore Tenmu (天武天皇) ordinò al suo servitore di corte Hieda no Are (稗田阿礼) di apprendere a memoria questi documenti (teiki e honji), ma anche i miti più importanti relativi alla dinastia Yamato e alla sua diretta discendenza divina. E’ altamente probabile dunque che Hieda no Are recitasse a memoria questi testi, scritti e orali, a colui che poi fu il compilatore ufficiale del Kojiki, Ō no Yasumaro (太安万呂).

 

Così se l’autore del Kojiki, Ō no Yasumaro, svolse il ruolo dello scriba, Hieda no Are fu il cantore – kataribe, che fornì molta parte del materiale ‘orale’ e ‘pre-letterario’ di cui si compone il testo scritto. In questo caso, dunque, i segni cinesi servirono a dare forma scritta (ossia ufficiale) a quanto già esisteva nella nebulosa indistinta dell’oralità, in quel patrimonio ‘aurale’ fatto di storie, tradizioni, poesie, miti e leggende dove non poteva regnare l’ordine e la concatenazione rigorosa dei fatti, che l’esposizione scritta richiede.

 

Il Kojiki è diviso in tre volumi (maki, 巻) e la materia trattata va dal ‘periodo degli dei’ (kamiyo, 神代), narrata nel I volume, sino al regno storicamente esistito dell’imperatrice Suiko (推古天皇, 592-628 d.C.), passando attraverso la fondazione dell’impero giapponese ad opera del I mitico imperatore (tennō 天皇) Jinmu Tennō (神武天皇 , la data ‘mitica’ riportata per l’incoronazione è il 660 a.C.) le cui imprese sono narrate nel II volume.

 

Il Nihonshoki tratta a grandi linee la stessa materia, è sempre un testo letterario del periodo Nara (710-794) compilato dal principe Toneri, su ordine imperiale. L’opera è suddivisa in 30 maki e arriva sino al regno dell’imperatrice Jitō (持統天皇, 690-697 d.C.), dunque un po’ più avanti rispetto al Kojiki.

 

Kojiki e Nihonshoki sono due testi che, pur trattando la stessa materia, presentano notevoli differenze. Il Nihonshoki nasce fortemente condizionato da ragioni di prestigio e di ‘concorrenza’ culturale con le storie dinastiche cinesi, da cui viene ripreso anche il nome (shoki, annali). Il testo è infatti scritto in cinese, mentre il Kojiki è scritto in una lingua ibrida, né pienamente cinese né pienamente giapponese e testimonia proprio il difficile cammino intrapreso per adattare i ‘segni cinesi’ e quella scrittura ad una lingua molto diversa, qual’era ed è il giapponese. Nel Nihonshoki, inoltre, è quanto mai evidente il bisogno di ‘ordinare’ la materia mitologica secondo livelli di importanza decisi da ragioni dinastiche, ovvero per testimoniare e avvallare la supremazia di una etnia ben precisa, quella di Yamato, proveniente dalle regioni centrali dell’odierna Nara. Entrambi i testi sono stati scritti per sostenere, in un certo senso, la ragion di stato, ossia legittimare la famiglia imperiale e il clan (uji) da cui discendeva, clan che si proclamava diretto discendente della dea Amaterasu. Eppure, nel Nihonshoki questa motivazione politica è molto più forte e il risultato è quello di presentare una materia mitologia più coesa, meno contraddittoria; si lascia spazio alle varianti regionali, ma ci si preoccupa di strutturarle e di spiegarle in un quadro di chiaro riferimento alla dinastia uscita vincente dalla lotta fra i vari uji. Tutto questo è meno ‘pressante’, invece, nel Kojiki, le contraddizioni nella trattazione di questa o quella divinità ci sono e sono evidenti, soprattutto quando la stessa divinità compare narrata in più varianti. I miti provengono, infatti, da ‘cicli’ diversi, a testimonianza di come anche i miti addotti a testimoniare l’epica dell’unificazione e della ‘costruzione del paese’ (kuni tsukuri, 国作り) abbiano delle evidenti radici ‘locali’. Il ciclo di Izumo mostra, ad esempio, quanto importante fosse il dio Susanoo; Susanoo no mikoto è il dio che ha salvato l’omonima regione dalla presenza di un terribile serpente ad otto teste e otto code (Yamata no orochi) e che ha contribuito alla nascita di un ben preciso uji. Nel ciclo di Yamato, legato alla regione di Nara, questo stesso dio compare come fratello minore della divinità principale, Amaterasu Ōmikami, la dea del sole. Secondo questo ciclo si tratta di un dio impetuoso e violento, capriccioso, dispettoso, persino immaturo, ma comunque un dio temibile, tanto che l’assemblea degli dei decide di esiliarlo sulla Terra, nella regione di Izumo, appunto. In un altro momento della trattazione mitologica, ci viene detto che Susanoo no mikoto è il dio degli Inferi e l’ingresso alla caverna che conduce al Regno dei morti si trova in Izumo.

 

I miti, in Giappone, come altrove, sono spesso la veste poetica e la ‘fabulazione’ creativa elaborata per rivestire delle verità storiche, dei fatti realmente accaduti. Questo è ben noto agli etnologi, agli antropologi, agli studiosi di folclore e a tutti coloro che trattano la materia mitologica o la cosmogonia di un popolo quale chiave interpretativa per arrivare alla ‘visione del mondo’ di una cultura, alla verità storica e archeologica fondante il cammino di un popolo. Per questa ragione, se è ovvio che Yamata no orochi sia una creatura mostruosa frutto dell’immaginario, come tanti draghi della tradizione occidentale e orientale, nondimeno, la sua presenza, anche immaginifica, significa qualcosa. Secondo alcune interpretazioni la sconfitta subita da questo serpente, che il testo dice provenire da regioni settentrionali, potrebbe indicare una vittoria del clan di Izumo sugli Ainu, i quali dalle regioni settentrionali, periodicamente cercavano di sfondare i confini più meridionali, sino alla loro definitiva ricacciata verso l’isola di Hokkaidō.

 

Allo stesso modo, anche l’idea di collocare l’ingresso degli Inferi nella regione di Izumo, nell’ordito mitologico si spiega con il fatto che la dea Izanami viene sepolta proprio su un monte al confine con quella regione: la Morte, il concetto stesso di morte irrompe nella narrazione per la prima volta, quando Izanami muore, dando alla luce il dio del fuoco. D’altro canto, al di fuori della cornice mitologica, l’aver collocato l’ingresso al Regno dei Morti in Izumo, potrebbe indicare le furiose battaglie, combattute fra i due clan rivali di Yamato e Izumo, proprio nella regione: l’immagine di un Regno dei morti sarebbe così derivata dalla visione di un campo di battaglia, con cadaveri e morti ovunque.

 

Tutto questo mette in luce la campagna di ‘denigrazione’ mitologica e ‘delegittimazione’ politica che il clan Yamato, uscendo vincente nella lotta per l’unificazione del paese, seppe condurre ai danni dei clan rivali: le divinità che non appartengono al ciclo di Yamato diventano, allora, divinità minori e talvolta connesse a regni impuri, come il Regno dei morti.

 

Nella cosmogonia giapponese appare chiarissima la distinzione in tre mondi separati.

 

Takama no hara (高天原), l’Alta Pianura del Cielo è il luogo dove vivono gli dei celesti (天つ神 , amatsu kami). La dea solare Amaterasu governa questo regno, assistita dall’Assemblea degli dei del cielo.

 

Ashihara no nakatsu kuni (葦原の中津国), l’espressione ‘Paese Centrale della Pianura delle Canne’ indica un regno a metà fra il cielo e le viscere della terra, un regno posto sotto il cielo e sopra le profondità del sottosuolo, abitate da divinità temibili e malefiche. Questo spazio, dimora degli dei terrestri (kunitsu kami, 国つ神, lett. ‘dei del Paese’) è la Pianura delle Canne, ossia la Terra, in cui il Paese Centrale è il Giappone. Forse, questa concezione ha origini cinesi ed i giapponesi l’avrebbero mutuata dagli annali in cui la Cina era descritta come Chūgoku (中国, Regno di Mezzo). A ciò i giapponesi avrebbero aggiunto le canne, ashi, tipiche del paesaggio autunnale nipponico). In un certo senso, nella mentalità antica, questa definizione veniva a costituire il nome stesso del paese e serviva ad indicarne la centralità nell’ordine cosmico. Oppure, molto più semplicemente, in una visione verticale dei tre regni, Paese Centrale indica un luogo posto a metà fra il SOPRA (il Cielo) e il SOTTO (gli Inferi).

 

Ne no Kuni (根の国), il Paese Radice è un luogo nelle profondità del sottosuolo, oppure oltre il mare. E’ il Regno dei Morti, anche noto come Yomi no kuni (黄泉の国, Paese della Sorgente Gialla) o Ne no katasu kuni (根の堅洲国, Paese in un angolo del profondo). In Cina si riteneva che nelle viscere della Terra vi fosse una sorgente che dava il colore al suolo e al sottosuolo. Secondo altri studi, yomi sarebbe derivato da yami (闇, buio, oscurità) e dunque Paese dell’Oscurità per indicare l’oltretomba, il regno dei morti, l’Ade o Averno, nella mitologia occidentale. Questo regno è abitato dalle anime dei morti, ma non solo: vi sono spiriti malvagi come gli oni (鬼, orchi), le shikome (醜女), demoni al femminile che nel mito della discesa di Izanagi nel Regno dei morti, richiamano alla memoria le Erinni / Furie[1] della tradizione greco-romana.

 

A questo elenco va aggiunto un altro regno, piuttosto ambiguo e di non facile definizione, chiamato Tokoyo no kuni (常世国) ‘il paese delle generazioni eterne’. ‘Paese Eterno’ è l’epiteto per indicare una terra lontana, una terra straniera oltre il mare, forse la Corea o la Cina. Alla fine del I libro del Kojiki, a conclusione del mito di Yamasachi e Umisachi, ci viene detto che uno dei fratelli del futuro I imperatore Jinmu tennō si trasferì a Tokoyo no kuni e sulla base della migrazione di questo dio chiamato Mikenu, successivamente si sostennero campagne anche belliche a favore della conquista della Corea, perché i sovrani coreani dovevano essere considerati discendenti da un parente di Jinmu tennō e dunque governatori di uno stato vassallo del Giappone. Toko yo no kuni indica anche un luogo mitico dove non si conoscono né vecchiaia né malattia, un paese magico e incantato come il Regno del Mare presentato nel mito di Yamasachi e Umisachi o nella leggenda di Urashima Tarō. Infine vi è un’ultima connotazione legata al Paese Eterno, che associa Toko yo no kuni con Yomi no kuni, Yomiji (Il paese / la terra dei morti).

 

 

 

La mitologia e cosmogonia giapponese ebbero un ruolo chiaramente politico nel Giappone antico, pari a quello che ebbe la mitologia greca nel mondo antico. Eppure, una differenza emerge evidente. Se nella mitologia greca, il re Agamennone è un nipote del dio Zeus, oggi i suoi discendenti non governano più, come sovrani, la Grecia. Al contrario, i discendenti del nipote celeste (tenson, 天孫) della dea Amaterasu, ossia il dio Ho no Ninigi, sono ancora oggi considerati gli antenati dei vari clan che storicamente abitarono il Giappone e fra questi, il clan da cui discende la famiglia imperiale che a quella tradizione si richiama.

 

Per questo motivo, è importante conoscere la mitologia, evitando di trasformarla in fanatismo religioso o politico. A mio giudizio, essa deve essere intesa proprio in chiave antropologica, come tessuto socio-culturale di un popolo, come background cui una cultura si richiama, ma sempre alla luce del relativismo culturale che sa tracciare confronti aperti, ritrovare somiglianze e punti d’incontro fra culture diverse.

 

Ogni cultura ha un suo concetto di ‘Inferno’, un suo concetto di ‘Cielo’, ma le somiglianze vanno anche più in profondo, quando si riescono a rintracciare profili di divinità o eroi dai comportamenti simili, che attraversano culture diverse: pensiamo al mito della discesa negli Inferi o a vari tabù religiosi e sacrali condivisi da popoli in tempi e spazi pur distanti fra loro.

 

Il mito, come la fiaba del resto, è forse proprio quel terreno di ‘coltura’ in cui crescono gli archetipi, ossia quelle immagini dell’inconscio universale, o meglio come lo definiva Jung, dell’inconscio collettivo, che è patrimonio comune ed ereditario dell’uomo. Nel pensiero junghiano, a testimonianza dell’esistenza degli archetipi, vi sono da un lato i sogni, ‘produzioni oniriche soggettive’ in cui si presentano spesso motivi, non riconducibili ad esperienze personali; dall’altro lato, vi è l’universo mitologico e fiabesco, una produzione ‘immaginifica’ in cui ricorrono troppo spesso dei temi, delle figure, delle visioni del cosmo comuni a culture diverse, spesso lontanissime spazio-temporalmente fra loro, dei minimi comuni denominatori culturali fra popoli del tutto privi di accertati contatti reciproci, perché si possa parlare di influsso diretto di un’esperienza storica su un’altra.

 

La mitologia nipponica è materia meno nota nel mondo, rispetto per esempio alla mitologia greca; i nomi più conosciuti di divinità sono Amaterasu Ōmikami o Susanoo no mikoto, ma questa non familiarità con la materia mitologica non è solo occidentale: anche i giapponesi, che durante le festività legate allo Shōgatsu (正月, Capodanno) sono soliti rendere visita ad un santuario shintō (jinja, 神社), raramente conoscono la divinità fondatrice che è all’origine di quel luogo di culto (sakitsu oya, 先祖); né sono a conoscenza, a parte il nome e le vicende principali di un dio shintō, degli aneddoti (setsuwa, 説話) e delle molteplici varianti locali di cui un racconto mitologico si arricchisce.

 

L’auspicio è dunque che queste storie di divinità giapponesi possano, sì, suscitare curiosità ed interesse, ma non per innescare un ‘esotismo spicciolo’, quanto piuttosto per diventare strumento di riflessione sulla cultura nostra e altrui, su mondi vicini e mondi meno vicini, ma non per questo meno parte di un’umanità universale.


Mani fredde, schiena curva, odore di pietre bagnate. Questo è il togi.

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Proprio in questo periodo stavo facendo queste riflessioni, strana questa coincidenza!

Pensavo un pò alla religione, al bene e al male e ai comportamenti sociali in genere e riflettvo prorpio su questa universatilità in certi atteggiamenti, in certe conoscenze da parte di culture e popoli così diversi.

Nonostante paesi che non avevano mai avuto contatti tra di loro, o per lo meno sporadici e non tali da giustificare uno scambio interculturale profondo, vi si trovano somiglianze inpressionanti, che quasi ti portan a pensare che in effetti debba esistere un solo Dio o una sola verità a cui poi tutti sono arrivati, in modo e tempi diversi sì, ma con le stesse basi e fondamenta.

E' un discorso anche religioso naturalmente, scaturente sempre da questa ineluttabilità della morte e dalla paura che essa provoca nell'uomo e nella sua incapacità di spiegarla e di razzionalizzarla.

 

Interessante.Bell'articolo Ken!

 

Funboy

Modificato: da Funboy

Le parole possono ferire, il silenzio può guarire. Sapere quando è opportuno parlare e quando invece tacere è compito dei saggi.

La conoscenza può ostacolare, l'ignoranza liberare. Sapere quando è opportuno conoscere e quando ignorare è compito dei profeti.

La lama, indifferente a parole, silenzio, conoscenza o ignoranza, taglia in modo netto. Questo è il compito dei guerrieri.

(Suzume no Kumo)

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