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Introduzione alla nihontō

Di Francesco Marinelli – Testi ed immagini in parte tratti da “La spada giapponese. Storia, tecnologia e cultura” di Roatti e Verrina e dal Forum I.N.T.K.

Introduzione

La lama giapponese – tōken è stata descritta come “l’anima vivente del Samurai, l’orgoglio dei guerrieri e l’argomento dei poeti”. Il bushi (guerriero) la considerava come il bene più prezioso dopo l’onore e la venerava in maniera quasi religiosa; per più di cinque secoli intere scuole di forgiatori hanno dedicato le proprie energie esclusivamente a costruire e decorare le nihontō (lame giapponesi).

Uno sguardo agli innumerevoli riferimenti nelle leggende, nonché alla minuziosa etichetta alla quale si deve attenere chi la utilizza o chi ne trasporta una, dimostra come questa abbia enormemente influenzato la vita dei Samurai e la cultura del Giappone. A parte la sua straordinaria efficacia come arma da combattimento, probabilmente insuperata nel mondo, la nihontō era considerata come l’emblema della virtù, del valore e della forza del guerriero, aveva il potere di rafforzare la sua fermezza e di proteggerlo da ogni tentazione che potesse infangare il suo nome, quello della sua famiglia o quello dei suoi antenati. Va notato infine come i cinque elementi (acqua, terra, fuoco, legno e metallo) prendano tutti parte al complesso processo di forgiatura, che non consiste semplicemente in una serie di operazioni effettuate meccanicamente, ma di un vero e proprio rito nel quale il forgiatore entra in simbiosi con la lama che sta creando, la nihontō combina la purezza del metallo con l’energia del fuoco utilizzato per forgiarla.

La leggenda

Nel Kojiki, testo sacro fondamentale dello shintōismo, si narra che il Dio Haya Susanoo, figlio del Dio Izanagi, creatore, insieme alla Dea Izanami, delle isole nipponiche, venne esiliato nella regione di Izumo dalle otto centinaia di decine di migliaia di Dei. Qui il Dio venne a sapere che ogni anno un enorme drago dalle otto teste si presentava nella regione ed esigeva come tributo una vergine. Haya Susanoo si offrì di sconfiggerlo e facendolo ubriacare con otto botti di sakè, riuscì ad ucciderlo. Cominciò a tagliarlo a pezzi con la sua spada ma, arrivato alla coda, questa si ruppe, incuriosito aprì la coda e scoprì che al suo interno era custodita la grande spada Tsumugari (La Ben Affilata). Così Susanoo la consegnò ad Amaterasu (la Dea del sole), la quale poi decise di donarla, insieme allo specchio ed ai Magatama, a suo nipote Ninigi, incaricandolo di regnare sul Giappone e di tramandare questi tesori ai suoi successori.

Il decimo Imperatore, Suigin, ordinò che fosse custodita nel tempio di Ise. Il principe Yamato Takeru, figlio del XIV imperatore, accingendosi a compiere una spedizione contro gli Ainu, si fece consegnare Tsumugari, portandola con sé durante la campagna di guerra. I nemici, un giorno, attirarono il principe in una prateria, incendiandola. Ormai senza via di scampo, con prontezza Yamato Takeru falciò l’erba in fiamme (forse fu la spada stessa a farlo, come per magia), creandosi un varco verso la salvezza e la vittoria. Quel giorno, la lama prese il nome di Kusanagi no Tsurugi (La Spada Falciatrice d’Erba).

Ancora oggi è uno dei tre tesori che vengono consegnati ad ogni imperatore giapponese all’atto del suo insediamento, assieme allo Specchio ed alla Gemma, simboli di Amaterasu. Fa riflettere che la spada leggendaria provenga dalla regione di Izumo, ricca di minerali ferrosi e quindi zona ideale per il lavoro dei forgiatori. Attorno alle nihontō, alla loro origine, ai fabbri, ai personaggi che ne furono in possesso o ne subirono gli effetti, sono fiorite nel tempo numerose storie e leggende come quella di Susanoo, sospese tra mito e realtà storicamente documentate.

La Nihontō attraverso i secoli

La lavorazione del ferro, sia per fusione che per forgiatura, era conosciuta nella Cina del Nord sin dal VI secolo a. C. Il Giappone nel 362 d.C. invase la Corea e, rimanendovi per duecento anni, ebbe modo di acquisire dalla vicina Cina la conoscenza delle armi in ferro ed in particolare della spada dritta, fino ad allora le armi erano state sempre prodotte in pietra o in bronzo. Dopo una massiccia importazione di spade cinesi, reperibili nelle sepolture preistoriche, il Giappone sul finire del IV secolo iniziò una propria produzione di lame in ferro, elaborando e raffinando tecniche e forme assolutamente originali. Queste prime, chiamate jokotō, erano dritte e la lama era lunga dai 90 cm a 1 m, secondo le misure che vengono scritte nel Kojiki e nel Nihonshoki. Già in quest’epoca erano presenti vari tipi di lama, come la tsurugi (molto appuntita con il filo su entrambe i lati, spesso raffigurata nell’iconografia buddista), la tsurugi no tachi (con il filo da un solo lato nella parte di lama vicino all’impugnatura e doppio verso la punta) e la warabite no tachi (una specie di corto pugnale nel quale la lama, spessa e larga, e l’elsa sono formate da un unico pezzo di metallo lavorato). Con l’avvento del periodo Heian (794- 1185) la lama comincia ad assumere alcune caratteristiche distintive che la renderanno simile a come la intendiamo oggi (migliorandone l’efficacia come arma e la bellezza come oggetto d’arte). Infatti abbiamo una lunghezza media di 80 cm, una diminuzione di spessore rispetto al periodo precedente e, soprattutto, la curvatura vicina l’impugnatura (koshizori), che indica come in battaglia fosse ormai diventato più importante il fendente piuttosto che la stoccata. Bisogna ricordare che in questo periodo numerose guerre scoppiarono in tutto il Giappone, ed un editto governativo del 984 (attraverso il quale si vietava ai civili, tranne a color che fossero in possesso di un permesso speciale, di indossare lame) ci mostra come in quel tempo il possesso di un’arma fosse diventata un’abitudine diffusa tra la popolazione. Nel primo periodo Kamakura (1185-1333), durante il quale la classe militare divenne la colonna portante del paese, si assistette allo sviluppo del tantō, un corto pugnale che si portava alla cintura e alla nascita del kodachi (piccola tachi), sulla cui origine si discute ancora. Si pensa venisse generalmente usato accompagnandolo al normale tachi (forse come un primitivo daishō), o che fosse un tipo di lama specificatamente pensato per guerrieri molto giovani. In ogni caso, a parte le dimensioni ridotte (misurava meno di 60 cm), esteticamente si presentava come un classico tachi. Nel 1274 e nel 1281 il Giappone venne invaso dai Mongoli, si salvò entrambe le volte grazie all’intervento del provvidenziale kamikaze (“vento divino”) che spazzò via la flotta mongola. Temendo un terzo assalto (che tuttavia non si verificò mai), in tutto il paese le manovre militari si intensificarono e la produzione di armi aumentò. Uno dei risultati di questo incremento fu la creazione di un nuovo tipo di lama, la ikubi kissaki no tachi, con una punta caratteristica, leggermente più larga e spessa delle precedenti. Anche la produzione di tantō aumentò notevolmente, probabilmente a causa del perfezionamento che le tecniche di combattimento stavano subendo in questo periodo; questo infatti si rivelava molto utile nel combattimento ravvicinato (era lungo infatti attorno ai 25 cm), nel quale la lunga tachi non si dimostrava altrettanto maneggevole. Verso la fine del periodo Kamakura cominciò a manifestarsi la tendenza ad allungare le lame, costume che esplose nel periodo Nambokuchō (1333-1391), durante il quale la lunghezza delle lame divenne di circa 90 cm – 1 m; questa tendenza colpì anche la naginata (alabarda). Il motivo di queste esagerazioni va ricercato probabilmente nel fatto che in questo periodo esistevano due corti imperiali contrapposte che rivaleggiavano tra di loro, e che quindi cercavano di ostentare il proprio potere anche attraverso il dispiego di attrezzature militari ed armi dall’imponente apparenza. Il periodo Muromachi (1392- 1573) vede l’unione delle due corti rivali, e quindi cessa di esistere la necessità di ostentare armi di proporzioni esagerate; si ritorna quindi alle dimensioni consuete, ma presto nuove innovazioni appaiono sulla scena. Nasce un nuovo tipo di lama, la uchigatana, che possiede due caratteristiche principali: la curvatura è vicino alla punta (sakizori) e non più vicino all’impugnatura (koshizori) come nelle lame precedenti. Questa inoltre veniva portata con il filo rivolto verso l’alto, perché si stava diffondendo la tecnica di combattimento che prevedeva estrazione ed attacco con un unico movimento (tecnica che più tardi prenderà il nome di iaijutsu); ciò era possibile solo se il filo della lama, al momento dell’estrazione, era rivolto verso l’alto e la curvatura sakizori rendeva più agevole la procedura. Le uchigatana venivano forgiate con varie misure, quelle più lunghe di 60 centimetri erano chiamate katana (termine che col tempo passerà ad indicare tutte le lame in generale), mentre quelle più corte erano chiamate wakizashi o kodachi. In ogni caso le lame più diffuse in questo periodo erano ancora le tachi e le uchigatana non erano in genere di alta qualità, cosa che invece inizieremo a trovare dal periodo Momoyama. Verso la fine del periodo Muromachi si diffonde un nuovo tipo di tantō, lungo solo 15 centimetri, che veniva portato nascosto tra le vesti. La più importante innovazione nel campo delle lame, che avvenne tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII (per questo quelle prodotte dal periodo Momoyama in poi saranno chiamate Shintō, letteralmente “lame nuove”), fu il quasi totale abbandono del tachi e l’abitudine di portare una coppia di uchigatana (katana e wakizashi) insieme; questa coppia prese il nome di daishō (grande-piccolo) e si diffuse sempre più, anche se nei primi tempi le lame di questi non erano altro che tachi accorciate per lo scopo. Come per il kodachi, anche l’introduzione del wakizashi non ha una spiegazione ben definita, tuttavia si può cercare una spiegazione nell’abitudine, per i samurai, di lasciare la katana all’esterno di un edificio ed entrare armati solo di wakizashi, che quindi troverebbe la sua ragion d’essere nel venire usata come un’arma per combattimenti al coperto (anche se il più famoso utilizzatore del daishō fu Miyamoto Musashi, il grande samurai che per primo formalizzò l’utilizzo contemporaneo in combattimento di katana e wakizashi). Con l’introduzione e la diffusione del daishō, in generale il tantō cadde in disuso, anche se utilizzato ancora, col nome di harakirigatana, per compiere il suicidio rituale harakiri. Nel 1876, otto anni dopo la restaurazione Meiji, venne promulgato un editto che proibiva ai samurai di portare le tōken; in questo modo, di riflesso, i maestri forgiatori si ritrovarono senza lavoro. Anni dopo le guerre contro Cina e Russia la produzione riprese essenzialmente per gli ufficiali dell’esercito; queste prendono il nome di gendaitō (lame moderne). Tuttavia dopo l’editto Meiji molti forgiatori avevano abbandonato l’arte, uno dei pochi rimasti fu Gassan Sadakazu, un forgiatore di Osaka, il quale nel 1906 venne nominato Forgiatore ufficiale della corte imperiale. La sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale e la conseguente occupazione delle forze occidentali, fu un altro duro colpo per l’arte della forgiatura, in quanto gli occidentali vietarono la produzione di armi di qualsiasi tipo (anche le arti marziali a mani nude vennero proibite). Ma nel 1953 venne emanata una nuova legge che permetteva la forgiatura e nel 1954, sotto il patrocinio della neofondata “Società per la preservazione dell’arte della lama giapponese” si tenne la prima esposizione postbellica di nihontō; da allora si sono susseguiti numerosi eventi di questo tipo.

La forma della perfezione

La nihontō è quasi sempre una lama curva ad un solo tagliente, caratterizzata da una struttura più o meno complessa. Questa si prolunga nell’impugnatura (tsuka) attraverso un codolo (nakago) la cui forma è variabile. La lama e l’impugnatura sono tenute assieme da un piccolo perno di bambù (mekugi). La tsuka è quasi sempre in legno, ricoperta da pelle di razza (same), trecciata in seta, cotone o pelle. La lama, quando non è usata, è depositata in un fodero (saya) in legno laccato, più o meno decorato. E’ stata la perfetta combinazione di tecniche costruttive e materiali impiegati a rendere la nihontō l’arma bianca più efficiente della storia. Le tecniche di fabbricazione si sono evolute ed affinate per oltre 1300 anni, raggiungendo nel periodo Kotō livelli d’eccellenza. E’ questa l’epoca a cui fanno riferimento anche i moderni fabbri, nei lavori dei quali possiamo riconoscere ancora gli stili delle cinque scuole tradizionali (gokaden): Yamato, Yamashiro, Bizen, Sōshū e Mino.

Il segreto dell’acciaio: il Tamahagane

Uno dei segreti dell’insuperata qualità delle lame giapponesi risiede nell’utilizzo di un metallo eccezionale e particolarissimo chiamato tamahagane (“acciaio gioiello”), che si ottiene esclusivamente con il metodo tradizionale giapponese per la fabbricazione dell’acciaio, chiamato tatara. Questo processo permette di fabbricare un acciaio purissimo, con alto contenuto di carbonio, bassissime percentuali di zolfo e fosforo che potrebbero deteriorarne la qualità, utilizzando sabbia ferrosa arroventata con fuoco di carbone in una fornace di creta. Queste fornaci di origine continentale risalgono almeno al VI secolo. Il minerale introdotto nel tatara è prevalentemente sabbia ferrosa; la temperatura raggiunta dalla fornace si aggira attorno ai 1200° – 1500° C ed è ottenuta bruciando carbone di quercia e pino.

Dell’acciaio ottenuto con questo processo, solo una parte, la più perfetta, viene classificata tamahagane. Il forno tradizionale misura tre metri di lunghezza, uno in larghezza ed uno e mezzo in altezza. Vi si versano sabbia ferrosa e carbone per un arco di tempo di 70 ore, durante il quale la sabbia ferrosa fonde. In un ciclo di lavorazione si utilizzano 8 tonnellate di sabbia ferrosa e 13 di carbone, che producono un blocco d’acciaio di circa 2-2.5 tonnellate, dal quale si ricava solo 1 tonnellata di tamahagane puro e frammentato.

La forgiatura

Le tecniche di forgiatura sviluppate dai fabbri giapponesi sono decisamente uniche. Le caratteristiche distintive di queste opere d’arte sono sempre state l’elasticità, resistenza agli urti e l’incredibile capacità di tagliare; il fascino della lama giapponese sta proprio nel soddisfacimento di tutti questi requisiti apparentemente l’uno in contrasto con l’altro.

Per giungere a questo risultato si porta a circa 1000° C una barra di acciaio dolce a basso contenuto di carbonio (0,2 – 0,3%), avvolta in un guscio di acciaio duro ad elevato contenuto di carbonio (0,6 – 0,7%). Il processo descritto, utilizzato per la forgiatura delle lame più comuni, si chiama kobuse kitae. Si conoscono almeno 50 tipi di forgiatura per stratificazione che possiamo tuttavia ridurre ad una decina di schemi fondamentali. Il panetto di acciaio con cui saranno costruite le principali superfici esterne della lama viene piegato e martellato ripetutamente (fino ad un massimo di 15-16 volte). Piegatura e martellatura consentono di eliminare le impurità ed i grani più grossi di carbonio e di conferire alla lama le nuove percentuali di carbonio desiderate. Cinque piegature producono 32 strati a basso tenore di carbonio; questo acciaio non può essere indurito per immersione in acqua e viene perciò utilizzato per il nucleo interno della lama. Dieci piegature producono 1024 strati, dando origine all’acciaio più duro, adatto ai piatti ed al dorso della lama. 15 piegature producono 32.000 strati: in una barra spessa circa 2.5 cm, ogni strato viene così ad avere uno spessore molecolare. Ulteriori piegature sono inutili e portano addirittura una perdita del 90% del materiale iniziale.

La superficie dell’acciaio mostra il disegno caratteristico che viene impresso dalla forgiatura (jihada). La superficie dell’acciaio, in base al “disegno” che ricorda, può essere chiamata in molti modi, tra cui: itame (venatura del legno), mokume (venatura del legno con nodi), masame (venatura del legno dritta), nashiji (polpa di pera), ayasugi (venatura molto ondulata) e muji (senza venatura).

Prima sagomatura (Sunobe)

Il forgiatore allunga il blocco per martellatura continua, scaldandolo costantemente sulla forgia, fino a raggiungere le dimensioni desiderate della lama maggiorate del 10 % circa.

Definizione della lama (Hizukuri)

Dopo aver scaldato la lama fino al colore giallo (1100° C) il forgiatore ne definisce i profili per martellatura, il dorso (mune), la punta (kissaki), la costolatura (shinogi), il filo (ha saki), questo finché la temperatura non cade, scendendo al calor rosso (700° C circa, “rosso ciliegia”). A questo punto il sunobe viene nuovamente riscaldato sulla forgia e riportato alla temperatura iniziale procedendo quindi nella lavorazione su porzioni di circa 15 cm per volta. Una volta definiti i profili fondamentali verrà conferita la forma finale alla lama, utilizzando lime, pietre e pialle speciali.

Definizione del tagliente (Tsuchikori)

Con un impasto di argilla, polvere di carbone, polvere di arenaria ed acqua, si ricopre l’intera superficie della lama. Ogni scuola ed ogni forgiatore possiede proprie formule per questo impasto, nel quale l’arenaria impedisce all’argilla di screpolarsi, mentre il carbonio serve a tenere sotto controllo la temperatura durante le fasi successive di riscaldamento e raffreddamento della lama. Lo strato d’impasto viene quindi assottigliato lungo il tagliente creando i caratteristici profili chiamati hamon. A seconda di come viene eseguita la raschiatura dello strato di impasto questi possono risultare dritti o irregolari. Il termine suguba indica quelli diritti, mentre il termine midareba quelli irregolari.

Tempra, Indurimento del tagliente (Yakiire)

Quando il materiale di copertura si è seccato la lama viene portata al calor rosso (750° C circa) nella forgia finché non è pronta per l’immersione in acqua fredda. Questa operazione richiede da parte del forgiatore la massima perizia e sensibilità ottenibili solo con una lunga esperienza.

Continuazione dello hamon nella punta (Bōshi)

Questo termine si riferisce alla porzione del profilo del tagliente (hamon) presente nella punta (kissaki) dopo lo spigolo di separazione tra questo e la lama, lo yokote. Le dimensioni del kissaki ed il profilo del bōshi sono tanto caratterizzanti dall’esperto da riconoscere il forgiatore, la scuola e l’età della lama, dunque rappresentano un elemento importantissimo per lo studio dell’opera. Il profilo del tagliente (ha) nel bōshi assume diversi nomi a seconda della forma: “irregolare”, “semicerchio grande”, “semicerchio piccolo”, ecc.

Attività (Hataraki) nie e nioi

Durante l’indurimento del tagliente, lo hamon è prodotto in modo da mostrare le differenze di durezza dell’acciaio, i nie (martensite) ed i nioi (perlite) sono le particelle che compaiono lungo questa linea di separazione tra le due superfici della lama. I nie sono relativamente grossi e visibili ad occhio nudo mentre i nioi sono così fini da non essere immediatamente percettibili; i primi possono essere paragonati alle stelle che brillano in cielo, mentre i secondi alla nebulosa della Via Lattea. Alcune formazioni rese più o meno evidenti dal tessuto della lama, definite genericamente hataraki (“attività”), prendono il nome da soggetti da cui richiamano in qualche modo la forma, per esempio: ashi (piede), yo (foglie), sunagashi (sabbia pettinata) e così via. Quando la superficie della lama ha una predominanza di nie è definita in nie deki. Questa caratteristica riguarda soprattutto quelle realizzate dalla scuola Sōshū. Mentre il termine nioi deki si riferisce a quelle che presentano principalmente formazioni di nioi, per esempio le lame della scuola Bizen, la scuola Bichū Aoe e la scuola Mino.

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“Riflesso” (Utsuri)

Definito impropriamente un “secondo hamon” si tratta di un effetto presente nella superficie della lama che va dallo hamon allo shinogi. Si ottiene portando a temperatura differenziata il tagliente (ha), il dorso (mune) ed i piatti della lama (shinogi ji). I forgiatori Bizen erano rinomati per questo effetto che solo da pochi anni è stato “riscoperto”.

Rinvenimento (Yaki modoshi)

Tolta dall’acqua dopo l’indurimento del tagliente la lama viene rimessa sulla forgia e scaldata fino a 160° C e immersa nuovamente nell’acqua. Questo trattamento diminuisce le tensioni nel tagliente indurito decomponendo parzialmente i grandi cristalli. Questo processo può esser ripetuto più volte.

Assestamento della curva (Sorinaoshi)

Durante l’indurimento del tagliente, il dorso (mune) si raffredda più lentamente del tagliente stesso (ha); questo provoca una contrazione, che ha l’effetto di aumentare la curvatura della lama. Durante la sagomatura iniziale il forgiatore dovrà tenere conto di questo fenomeno.

Rifinitura del codolo (Yasurime)

Dopo un prima sgrossatura generale, intesa ad esaminare la correttezza del lavoro eseguito, il forgiatore rifinisce il codolo della lama (nakago) tracciandovi sopra dei segni di lima. Ogni scuola ed ogni periodo hanno modi particolari i segnare il codolo: possono essere perpendicolari al codolo, inclinate da sinistra a destra, o viceversa, con inclinazione molto accentuata, come penne di falco invertire, simile ad una scacchiera e così via. A politura terminata il forgiatore può incidere con il bulino la propria firma e data sul nakago.

Incisioni sulla lama (Horimono)

Le incisioni sulla lama venivano realizzate fin dal periodo Heian (782 – 1184) ed avevano significato sia pratico (alleggerimento della lama), che religioso e decorativo. Anche questo elemento è rivelatorio del periodo di fabbricazione, del forgiatore e della scuola. I tipi di incisione più frequenti sulle lame sono gli sgusci, che hanno la funzione di alleggerire le lame, ma possiamo trovare anche incisioni di carattere religioso come caratteri sanscriti, immagini del Buddha, un drago avvinto ad una spada, una lama con elsa a forma di vajra indiana, formule di invocazioni, ecc.

Politura (Togi)

La politura deve rispettare, anzi esaltare, le geometrie della lama, la stoffa dell’acciaio e la sua trama (jihada). Le tōken si poliscono utilizzando una serie di pietre con diverso potere abrasivo, diversa durezza e natura chimica. Si inizia con una pietra a grana 150-220, poi 280-320, 400-600, a 800, a 1200-1500 (per evidenziare lo hamon) ed infine da 3000 a 5000 (per evidenziare i particolari di forgiatura dell’acciaio). La lama viene passata sulla pietra fissa con diverse angolature ed ognuna cancella le tracce della precedente. Nella fase finale della politura si utilizzano pietre a spessori minimi (fino a pochi decimi di millimetro), le quali vengono passate sulla lama fissa. Questa fase è molto importante per evidenziare la jihada, hataraki ed hamon. I procedimenti successivi hanno lo scopo di contrastare la superficie della lama che va dallo hamon allo shinogi. Poi si procede alla rifinitura del bōshi che alla fine risulterà “satinato”, contrastando piacevolmente con il resto della lama.

Lucidatura (Migaki)

Per completare il lavoro si procede alla lucidatura del mune e dello shinogi ji utilizzando i brunitoi, astine di acciaio durissimo che sfregate velocemente sull’acciaio (assieme ad una polvere lubrificante, ibota) ne compattano la superficie rendendola lucida e riflettente. Per questa operazione si usano almeno quattro diversi tipi di brunitoi.

In conclusione ogni lama ha delle caratteristiche diverse e quindi ognuna di esse richiede pietre e brunitoi adatti alle sue personalissime ed irripetibili caratteristiche costruttive, il politore (togishi) dovrà quindi disporre di un’ampia gamma di materiali al fine di esaltare la “personalità” di ciascuna lama, che naturalmente avrà studiato con la massima attenzione prima di procedere alla politura.

La montatura (Koshirae)

Un popolo che, come quello giapponese, ha una spiccata sensibilità artistica ed ha sempre posto un’estrema cura nel fabbricare anche i più semplici oggetti di uso comune, sarebbe stato impensabile che non avesse creato dei veri capolavori anche in un elemento considerato secondario come la montatura delle lame, nata in origine semplicemente per preservarla dall’usura e facilitarne il trasporto. Le lame, a seconda della tipologia e destinazione d’uso hanno peculiari montature che si possono classificare nei seguenti tipi fondamentali:

La guardia (Tsuba)

La tsuba, o guardia, è l’accessorio più importante della lama. Realizzata principalmente in ferro o leghe di rame, grazie alla sua grandezza ed al conseguente spazio che ne deriva, offre agli artisti giapponesi una superficie abbastanza ampia su cui esprimere la propria abilità. Per le loro raffigurazioni essi presero spunto da racconti popolari, eventi storici, religione, araldica ed opere dei più grandi pittori cinesi e giapponesi. Prima del XVI secolo, la maggior parte delle tsuba erano abbastanza fini, larghe e senza firma. Ma inevitabilmente, con il miglioramento delle tecniche decorative (e soprattutto con la lunga epoca di pace inaugurata da Ieyasu Tokugawa), i creatori di tsuba divennero dei veri specialisti. Al centro di esse vi è un’apertura (nakago ana) attraverso la quale passa la lama. Il nagako ana è compreso in un ovale generalmente non decorato, chiamato seppa dai, sul quale l’artista poteva incidere la sua firma. Si possono trovare su entrambi i lati del seppa dai due aperture addizionali (kozuka bitsu e kogai bitsu), rispettivamente per un coltellino (kozuka e kogatana) e per uno spillone (kogai), che si andavano ad infilare in due fessure laterali del fodero.