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snorri

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  1. snorri

    ciao a tutti

    benvenuto
  2. Il niku elemento essenziale in una nihonto esso è dato in fase di politura , tutte le varie repliche ne sono prive inquanto affilate a mola , differenza tra piano concavo e convesso .
  3. snorri

    Energia vitale e Ki

    E' proprio così grazie a te Yama , Leos credo che i felini per la loro natura siano degli animali molto misteriosi ed affascinanti
  4. snorri

    Energia vitale e Ki

    Ho trovato molto illuminante questa storiella dal gusto prettamente zen che fà luce sulla concezione di tecnica ki ed atteggiamento mentale. La meravigliosa arte del gatto da: "I Quaderni di Avallon", n. 23, 1990, 105-111 In questo Articolo il noto orientalista tedesco K. von Dürckheim porge al pubblico occidentale un estratto da un antico libro sulla Via della Spada dell'antica Scuola Ittôryû, fondata nel XVII secolo da ltô Ittôsai Kagehisa (156-1653); benché lo scritto sia anonimo, denunzia un'evidente ispirazione taoista e Zen, e può essere ritenuto frutto dell'insegnamento di uno dei primi Maestri della Scuola. Traduzione di Marcella Morganti. C'era una volta un Maestro di kendô chiamato Shoken Un grosso topo si era installato in casa sua, mettendogli tutto sottosopra; lo si vedeva scorrazzare tranquillamente addirittura in pieno giorno.Un giorno il padrone di casa lo rinchiuse nella sua stanza e incitò il suo gatto ad acchiapparlo, ma il topo gli saltò addosso e lo morse alla gola così forte che riuscì a salvarsi a malapena, miagolando disperatamente. Allora Shoken radunò diversi gatti del quartiere famosi per il loro coraggio e li fece entrare nella stanza. Il topo rimaneva seduto, raggomitolato in un angolo, e appena uno dei gatti gli si avvicinava gli saltava addosso e lo mordeva, facendolo fuggire. Aveva un atteggiamento così feroce che nessun gatto osava riprovarci nuovamente. Allora il padrone di casa, in preda alla rabbia, iniziò a corrergli dietro lui stesso per ucciderlo, ma il topo evitava tutti i colpi del celebre Maestro di Kendô, che finivano per distruggere porte, pareti, specchi ed altri oggetti, mentre il roditore, rapido come il lampo, riusciva a schivare ogni suo movimento. Infine, saltandogli al viso, fini per morderlo. Alla fine, grondante di sudore, Shoken chiamò il suo servitore, dicendogli: "Sembra che a sei o sette cho da qui [Cho = unità di misura corrispondente circa a 109 m. -ndt.] viva il gatto più coraggioso del mondo. Va' e portamelo!"Il servitore gli portò il gatto. Era invero una gatta, che non sembrava aver nulla di diverso dagli altri gatti, e dall'aspetto né particolarmente intelligente, né pericoloso. Anche il Maestro di spada non le concesse una particolare fiducia; le apri comunque la porta e la fece entrare.Calma e silenziosa, come se non dovesse accadere nulla di particolare, la gatta avanzò nella stanza. Il topo sussultò e rimase immobile. Con la più grande naturalezza la gatta gli si avvicinò lentamente, lo prese in bocca e lo portò fuori.Alla sera, tutti i gatti sconfitti si riunirono nella casa di Shoken. Rispettosamente, offrirono alla vecchia gatta il posto d'onore, le si inginocchiarono davanti e dissero umilmente: "Abbiamo tutti la reputazione di gatti coraggiosi. Ci siamo sempre allenati affilandoci le unghie e vincendo qualsiasi topo, lontra o donnola. Mai avremmo potuto credere all'esistenza di un topo così forte. Con quale arte avete potuto vincerlo così facilmente? Svelateci il vostro segreto!"Allora la vecchia gatta rise e disse: "Voi, giovani gatti, siete senz'altro coraggiosi, ma ignorate la vera Via. È per questo che non conquistate il successo quando vi confrontate con qualcosa che non conoscete. Ma innanzitutto ditemi: come vi siete allenati?"Un gatto nero s'avvicinò e disse: "Sono il discendente di una famiglia celebre per quanto riguarda la cattura dei topi, e anch'io decisi di proseguire nella stessa Via. Posso saltare sopra paraventi alti due metri, so introdurmi in aperture minuscole dove solo un topo può entrare; da piccolo mi sono allenato in tutte le arti acrobatiche. Anche quando sono sveglio da poco, quando non sono completamente presente, nel momento in cui riprendo le forze, se vedo un topo correre su una trave lo acchiappo con un balzo. Ma questo è il topo più forte che abbia mai incontrato. È la sconfitta più terribile che abbia mai subito, e me ne vergogno."La vecchia gatta rispose: "Ciò in cui ti sei allenato non è null'altro che tecnica [Shosa arte solamente fisica]. Quando gli antichi insegnavano una tecnica, questa era in realtà una delle forme della Via (Michisuji). La loro tecnica era semplice ma racchiudeva la più grande saggezza. Nel mondo d'oggi ci si occupa solo della tecnica; certamente, molte cose sono state inventate usando le ricetta 'A condizione di fare questo o quello si ottiene questo o quello...'. Ma cosa si ottiene? Nient'altro che dell'abilità. Abbandonando la Via tradizionale, usando l'intelligenza ed abusandone, si instaura la competizione nella tecnica, e non si avanza più. Succede sempre così: non si pensa a null'altro che alla tecnica, e ci si serve solo dell'intelligenza: questa senza dubbio è una funzione dello Spirito (Ki), ma se non è radicata nella Via, puntando solamente all'abilità diventa il germe della falsità, ed il risultato sarà nefasto. Riprenditi, dunque, ed allenati nel senso giusto!".Si avvicinò allora un grosso gatto tigrato, dicendo: "Penso che sia unicamente lo spirito (Ki) che conta nell'arte cavalleresca; mi sono sempre esercitato in questo potere (Ki voneru). Ora mi sembra che il mio spirito sia duro come l'acciaio e libero, pieno dello spirito che riempie il cielo e la terra. Appena avvistato il nemico, la potenza di questo spirito lo incanta immediatamente, dandomi una sicura vittoria. Solo allora mi avvicino, senza riflettere, e mi oriento secondo l'Io del mio avversario. È la mia volontà che incanta il topo: a destra, a sinistra, controllo ogni suo movimento. Quanto alla tecnica non me ne preoccupo: viene da sola. Un topo che corre su una trave: mi basta fissarlo che già cade, ed è mio. Ma questo è un topo giunto senzaforma, se ne è andato senza lasciar tracce. Che cos'è? Lo ignoro".La vecchia gatta rispose: "Ciò per cui ti sei tanto sforzato non è altro che forza fisica. Non traspare quel bene che merita il nome di 'bene'. Il solo fatto di esser cosciente del potere di cui vuoi servirti per vincere è sufficente per vanificare la tua vittoria. Il tuo Io entra in gioco, ma se l'Io dell'avversario è più forte del tuo, cosa succederà? Se vuoi vincere il nemico grazie unicamente alla tua forza superiore, egli ti opporrà la sua. Credi di essere il solo ad esser forte, e tutti gli altri deboli? Ma come ti comporterai di fronte a qualcosa che non potrai vincere, neanche con la migliore volontà o con la tua forza, anche se superiore? Ecco il problema. La forza spirituale che serbi in te 'dura come l'acciaio, libera e che riempie il cielo e la terra' non è la grande Potenza (Ki-no-sho), ma solo un suo riflesso; il tuo spirito, solo un'ombra del grande Spirito. Sembra questa grande potenza, ma in realtà è tutt'altra cosa. Lo Spirito di cui parla Mencio è forte perché è illuminato da una permanente chiaroveggenza. Ma il tuo spirito può disporre della sua potenza solo a determinate condizioni. La tua forza e quella di cui parla Mencio hanno un'origine diversa e diverso è il loro effetto. Sono talmente opposte tra loro da poter paragonarle alla corrente eterna dello Yang-Tze-Kiang e ad una marea notturna improvvisa. Ma in presenza di ciò che non può essere vinto da alcuna forza spirituale contingente (Kisei) quale spirito manifestare? Dice il detto: 'Un topo intrappolato morde persino il gatto'. Il nemico, di fronte alla morte non è legato più a nulla: dimentica la sua vita, dimentica ogni bisogno, dimentica sé stesso, è libero di vincere o perdere; non mira più a preservare la propria esistenza. Ed è così che la sua volontà diventa acciaio. Come si può vincerlo, con una forza spirituale che ci si è attribuiti da soli?"[/size][/font] Giunse un gatto grigio più anziano, che s'inchinò e disse: "Sì, in verità è come dice lei. La potenza fisica, anche se enorme, ha in sé unaforma (Katachi), e tutto ciò che ha forma, anche se impalpabile, può essere percepito e compreso. Ecco perchè ho sempre esercitato il mio Cuore [Kokoro=la potenza del Cuore]. Non sono io che esercito questo potere capace di sconfiggere spiritualmente l'avversario (l' "Io" del secondo gatto); non combatto neanche (come il primo gatto). Mi "accordo" con colui che è di fronte a me, mi unisco a lui non opponendomi in alcun modo. Quando l'altro è più forte di me cedo, mi abbandono per così dire alla sua volontà; la mia arte consiste nell'afferrare una gettata di ghiaia con una rete flessibile; il topo che desidera attaccarmi, anche se forte, non troverà nulla su cui appoggiarsi, nulla da cui poter slanciarsi. Ma questo topo non è stato al gioco. È arrivato ed è partito, inafferrabile come una divinità. Non ho mai visto nulla di simile." La vecchia gatta rispose: "Ciò che tu chiami conciliazione non procede dall'Essere, dalla grande Natura: è una conciliazione voluta, artificiale, un'astuzia. In maniera conscia, vuoi sfuggire all'aggressività del nemico. Ma se ci pensi, egli si rende conto furtivamente delle tue intenzioni, quindi, se manifesti un tale atteggiamento di conciliazione il tuo spirito che era pronto ad attaccare viene turbato, come la base della tua percezione ed i tuoi atti. Tutto ciò che intraprendi consciamente ostacola la Vibrazione originaria della grande Natura, disturba il suo sorgere dalla fonte segreta ed il corso del tuo movimento spontaneo. "Da dove viene allora l'efficacia miracolosa? Unicamente non pensando a nulla, non volendo nulla, non facendo nulla, abbandonandosi nel movimento della vibrazione dell'Essere; solo così la tua forma diverrà inafferrabile. Niente in questo mondo nasce privo di forma. Solo così nessun nemico potrà resistere. Non penso assolutamente che tutto quello che state cercando di raggiungere non abbia valore: tutto e qualsiasi cosa può divenire un modo di seguire la Via; tecnica e Via possono identificarsi. In questo caso il grande Spirito, l' "agente", è integrato in essa e si manifesta nell'azione del corpo. La forza del grande Spirito (Ki) serve la persona umana (Ishi). Colui che ha liberato il suo Ki può affrontare ogni cosa nel giusto modo, nella sua libertà infinita. Al momento di combattere, senza servirsi di una forza particolare, il suo spirito in attitudine di Conciliazione non cederà né all'oro né alla pietra. Una sola cosa è importante: che anche la più minuscola traccia di coscienza di sé non entri in gioco, altrimenti tutto è perduto. Se si pensa allo scopo, anche solo per un istante, tutto diventa artificiale, non procede più dall'Essere, dalla vibrazione originaria della "Via-Corpo" (do-Tai): allora il nemico vi resisterà. Quindi, quale arte è bene utilizzare, ed in che modo? Solo nel momento in cui sarete liberi da ogni coscienza dell'Io (Mu-shin), solamente agendo "senza agire", senza intenzione o astuzia, in armonia con la grande Natura, solo allora sarete sulla vera Via. Abbandonate ogni intenzione, esercitatevi nella non-intenzionalità, e lasciate agire l'Essere. Questa Via è inesauribile, senzafine". La vecchia gatta aggiunse poi qualcosa di stupefacente: "Non crediate che quanto vi ho appena detto sia quanto di più elevato esista. Poco tempo fa, in un villaggio vicino al mio viveva un gatto che passava le sue giornate a dormire. Non c'era niente che lasciasse supporre la benchè minima forza spirituale in lui. Era sempre là, sdraiato come un pezzo di legno. Nessuno l'aveva mai visto prendere un topo. Là dove dormiva e viveva, così come nei dintorni, non c'erano topi. Un giorno andai da lui e gli chiesi come si doveva interpretare questo fatto: non vi fu alcuna risposta. Per tre volte ancora gli posi la stessa domanda: egli continuò a tacere, non perché non voleva rispondere, ma perché, con tutta evidenza, non sapeva cosa dire. Fu così che compresi che "Colui che sa qualcosa, non la conosce". Quel gatto aveva dimenticato sé stesso, ed allo stesso modo tutte le cose attorno a lui: era diventato "nulla", avendo raggiunto il più alto grado di non-intenzionalità. Egli aveva trovato, senza alcun dubbio, la divina Via del Guerriero: Vincere senza uccidere. Io sono ancora lontana da lui". Shoken ascoltò tutto questo come in un sogno. Si avvicinò, salutò la vecchia gatta e disse: "Da molto tempo ormai mi esercito nella Via della Spada (Kendô), e non ne ho ancora raggiunto la fine. Ho ascoltato il suo discorso, e credo di aver compreso il vero senso del mio cammino. Ma ora, la prego, dica ancora qualcosa di più sul Suo segreto." La vecchia gatta rispose: "In che modo? Io sono solo un animale, e il topo è il mio cibo. Che cosa conosco delle cose umane? Solamente questo: il senso dell'arte del Kendô non è vincere l'avversario. O meglio, grazie a quest'arte ad un certo momento si giunge con la massima chiarezza alla base luminosa della morte e della vita (Seishi wo akiraki ni suru). Un vero guerriero attraverso l'esercizio dovrebbe impegnarsi nell'aspetto spirituale dell'arte, nella direzione determinata da questa chiarezza. Per far ciò bisogna esplorare innanzi tutto la dottrina sui fondamenti dell'essere, della vita, della morte e dell'ordine della morte (Shi no ri). Ma solo colui che diviene libero da tutto ciò che può distrarlo dalla Via, e soprattutto libero dal pensiero che limita e trattiene, può giungere a questa grande chiarezza. Non turbato, abbandonato se stesso, libero dall'Io e da ogni cosa, l'Essere ed il suo movimento (Shinki) si manifesterà in tutta la sua libertà, nel luogo e nel tempo ove ciò sarà neccesario. Ma se il Cuore non è libero, anche in modo estremamente tenue, anche l'Essere sarà ostacolato ed immobile; ora, se diviene immobile, chiuso in se stesso, anche l'Io diverrà immobile fisso in se stesso e in qualcosa che gli si oppone: così due forze si oppongono e lottano per la propria esistenza e in questo caso le migliori funzioni dell'Essere, capaci di ogni trasformazione, saranno inibite. Se la morte appare in quel momento il senso di chiarezza proprio dell'Essere si perderà. Come si può in una simile condizione affrontare il nemico nel giusto modo, considerare vittoria e sconfitta con un animo equanime? Anche se si vincerà sarà una vittoria cieca, che non ha nulla a che vedere col vero senso della Via della spada. "Essere libero da ogni cosa non significa affatto il "Vuoto". In quanto tale, l'Essere non possiede una natura propria: resta al di là di ogni forma. Nulla si accumula più in esso, in maniera tale che se si trattiene anche la cosa più infima, la grande Forza viene ostacolata, e l'equilibrio originario delle forze è perduto. Per poco che l'Essere si trovi legato ad un oggetto, non è più libero di muoversi, non potrà più scaturire nella sua piena ed intera abbondanza. Se l'equilibrio che proviene dall'Essere viene turbato la sua forza, laddove le sarà possibile circolare, scaturirà malgrado tutto, ma ove non potrà scorrere, non ci sarà nulla da fare."Quindi, il concetto di libertà da tutte le cose non significa altro che questo: non accumulando nulla, non appoggiandosi a nulla e non fissandosi su nulla non vi è né il forte né il suo opposto, né l'Io né l'opposto dell'Io. Nel momento in cui accade qualcosa, si incontra questo evento come inconsciamente, ed esso non lascerà traccia. Si dice nel "Libro delle Trasmutazioni" (Eki): 'Senza pensare, senza agire, senza movimento, nel silenzio totale: solo così è possibile testimoniare l'esistenza dell'Essere e della Legge delle cose dall'interno, e divenire inconsciamente tutt'uno con il Cielo e la Terra'. Colui che pratica il Kendô e vive in questo modo, è prossimo alla verità della Via".Shoken, udendo queste parole, chiese: "Cosa significa né Io né non-Io, né soggetto né oggetto? ".La gatta rispose: "Perché esiste l'Io, esiste anche il suo nemico. Se non ci si manifesta in quanto Io non si manifesterà nemmeno il proprio avversario. Questo è solo un altro nome per ciò che significa: opposizione. Fino a quando le cose conserveranno una forma propria, esisterà sempre una "contro-forma". Ogni volta che qualcosa assume determinazione, prende una forma particolare. Se il mio essere non viene concepito come una forma particolare, la sua "contro-forma" non avrà più ragione d'esistere. Dove non esiste opposizione, non c'è nulla che possa esservi contro. Questo è il significato di "né Io, né non-lo".Se si abbandona completamente il proprio essere, se si diventa liberi dall'attaccamento ad ogni oggetto, si è in armonia con l'universo, Uno con tutte le cose, nella grande Solitudine. Se la forma del proprio nemico svanisce, non ci se ne accorge, ovvero non ci si arresta: lo spirito si muove, continuamente libero da ogni legame, e risponde semplicemente, agendo con pari semplicità dal profondo dell'essere. Se lo Spirito è libero da ogni occupazione, il mondo corrisponderà tale e quale al nostro mondo, formando con noi un'unità. Lo si potrà cogliere aldilà del bene e del male, della simpatia o dell'antipatia: non si sarà più turbati o legati a nulla. Ogni opposizione: guadagno e perdita, bene e male, gioia e sofferenza, sorgono da noi stessi, ed è per questo che nell'immensità del Cielo e della Terra nulla merita d'esser compreso più che il proprio essere. Un poeta antico disse:Un granello di polvere nell'occhio e i tre mondi saranno troppo piccoli. Se non ci si sofferma più su nulla il letto più piccolo sarà ancora grande.Questo significa: se un granello di polvere penetra nell'occhio, questo non potrà più aprirsi, poichè una visione chiara è possibile a condizione che l'occhio sia vuoto. Possa quest'immagine servirci da parabola riguardo all'essere, che è luce illuminante e libera in sé da ogni cosa. Un'altro poeta disse:Circondato da contomila nemici, in quanto forma sarei schiacciato. Ma l'Essere è e resterà mio per quanto il nemico sia forte. Nessun nemico potrà mai penetrarlo.Confucio disse: "Anche l'essere di un uomo semplice non può essere rubato". Ma se lo spirito è turbato, l'Essere si rivolterà contro di noi. È tutto ciò che posso dirle. Ora si raccolga e cerchi in lei stesso".Un maestro può solo dare delle nozioni al suo discepolo, esporgli la sua opinione. Ma io solo sono capace di riconoscere la Verità, di integrarla. Questo si chiama "Integrazione di sé" (Jitoku). La trasmissione avviena da cuore a cuore (I shin den shin), ed è aldilà della dottrina e dell'erudizione (kjogai betsuden). Non significa "non contraddire il Maestro". Vuol dire semplicemente: anche un Maestro non saprebbe trasmettere la Verità. Questo non è valido unicamente per lo Zen.A partire dagli esercizi spirituali degli antichi, passando per la cultura dell'anima fino alle arti, l'integrazione di sé rimane sempre il nucleo centrale, ed essa è trasmissibile unicamente da cuore a cuore. Ogni insegnamento si limita ad indicare, orientare verso ciò che già esiste in se stessi, senza saperlo. Non vi è dunque un segreto che il Maestro possa "trasmettere" al discepolo: è facile insegnare, è facile ascoltare; il difficile è prendere coscienza di ciò che esiste già in sé, trovarlo e prenderne realmente possesso. Questo si chiama "Guardare nel proprio essere, visione dell'Essere" (ken-sei, ken-sho).Se ciò avviene vi sarà il Satori: il grande Risveglio dal sogno, dalle illusioni. Risvegliarsi, guardare all'interno del proprio essere, comprendere la Verità del Sé: tutto questo è la stessa cosa.[/i]
  5. snorri

    ciao a tutti

    Benvenuto
  6. snorri

    Energia vitale e Ki

    Grazie Sandro per la tua descrizione tra forma e tecnica , un argomento su cui riflettere ,molto interessanti ed affascinanti le altre descrizioni ed esperienze , io ad esempio ho letto con molto interesse il libro di Takuan Soho “ Scritti di un maestro zen ad un maestro di spada “ Nel testo vengono fornite precise indicazioni sulla predisposizione mentale che un samurai dovrebbe avere in uno scontro , questo fa pensare ad una lezione zen per la via della spada , ma non vengono toccati argomenti quali respirazione meditazione ecc, come se tra le due arti ci fosse un netto distacco tra monaco e samurai , due vie complementari ma diverse , almeno credo di aver capito questo , come detto da Sandro nella descrizione del Kiaijutsu trasmesso per via orale
  7. snorri

    Ciao a tutti

    Benvenuto
  8. snorri

    Energia vitale e Ki

    Energia vitale e Ki Credo che ciò che accomuna tutte le varie discipline Giapponesi sia proprio lampio spazio dedicato alla pratica del accrescimento del potenziale energetico chiamato ki ( forza, energia, spirito, animo), esso viene concentrato nel tan tien un punto nel basso addome , attraverso la pratica di alcune tecniche di respirazione e concentrazione che prefigurano il raggiungimento del vuoto mentale, non inteso come nullità ma come un osservazione pura dei fenomeni esistenziali , questo produce concentrazione , calma e controllo di se, potere spirituale ecc. Ho appreso questo studiando zen e lo zazen nello specifico ,mi chiedevo a tal proposito se anche in altre discipline quali la via della spada ,laikido , il kyudo , ecc, vi fossero degli esercizi psico- fisici legati a tale pratica.
  9. snorri

    Samurai cristiani

    Grazie Sandro e Mauri
  10. snorri

    Samurai cristiani

    Infatti è anche un argomento molto complesso due culture religiose molto diverse tra loro , grazie Sandro per il consiglio sul libro , sai qualche editore italiano dove poterlo torvare :-)
  11. snorri

    Samurai cristiani

    Grazie a voi amici per i suggerimenti , interessantissima la tsuba non ne avevo mai viste con tali simbologie , un argomento a cui mi sto appassionando è proprio lo studio propiziatorio o significativo celato nelle raffigurazioni di alcune tsuba .
  12. snorri

    Samurai cristiani

    Sempre su tale argomento ho trovato questo interessante articolo dal sopracitato libro di Camillari: La resistenza dimenticata dei samurai cristiani di Rino Cammilleri Giappone, anno 1637: guidati da Amakusa Shiro, un samurai di 16 anni, cinquantamila cattolici resistono eroicamente nel castello di Hara per tre mesi all’assedio dell’esercito imperiale. Non sopravviverà nessuno. In Occidente nessuno sa praticamente nulla della storia del cristianesimo giapponese. Neanche i cristiani e, figurarsi, i cattolici (sebbene il crìstianesimo giapponese coincida quasi interamente col cattolicesimo romano). A parte un lontano libro del 1959 di Jean Monsterleet edito dalle Paoline e uno di lvan Morris (del 1975 ma tradotto in italiano da Guanda nel 1983), nessuno ha mai raccontato quel che andiamo a raccontare. Nel primo libro (Storia della Chiesa in Giappone) vi si fa un cenno. Il secondo, che parla d’altro (La nobiltà della sconfitta), vi dedica un capitolo (dal quale attingiamo in mancanza d’altro). Ma la storia dei samurai cristiani di Shimabara è una delle più eroiche di tutti i tempi e ancora oggi i giapponesi le tributano la cosiddetta simpatia hoganbijki, che i leali nipponici riservano al valore sfortunato. Negli anni Sessanta un famoso attore del teatro kabuki era convinto di essere la reincarnazione dell’eroe di quella vicenda, Amakusa Shiro, il samurai sedicenne a cui fu dedicata anche una canzone che nel decennio successivo scalò le classifiche. Nell’immaginario dei giovani, da quelle parti, Amakusa Shiro tiene il posto che fu di Garibaldi per i nonni degli italiani e di Che Guevara per i “libertari” odierni. Il cristianesimo sbarcò in Giappone nel 1549 con s. Francesco Saverio, braccio destro di s. Ignazio di Loyola. Non ancora quarantenne, questo gesuita aveva convertito da solo quasi un milione di persone in Oriente. Accompagnato da un interprete, predicava sulle piazze il Vangelo di Matteo, che aveva imparato a memoria in giapponese. La diffidenza iniziale si tramutò in curiosità quando un astante sputò in faccia al suo compagno. Questi si asciugò rimanendo impassibile. Il fatto colpì i giapponesi, che apprezzavano moltissimo il dominio di sé. Col tempo, il santo si rese conto che erano i suoi abiti dimessi a destare disprezzo. Così, si procurò un abito più degno e l’avventura cominciò. In pochi anni il cristianesimo in versione cattolica divenne una presenza di tutto rispetto in Giappone. Il Kyushu era interamente kirishitan, cristiano, con epi­centri nelle città di Hiroshima e Nagasaki, e la cosa andava avanti con crescita esponenziale. Fino a quando certi trafficanti europei, protestanti, instillarono nei regnanti della dinastia Togukawa il sospetto che la penetrazione religiosa del cattolicesimo fosse solo il prodromo di qualcosa di peggio, dal punto di vista politico, da parte degli imperi spagnolo e portoghese. Gli editti persecutori non tardarono e Nagasaki divenne famosa come “la collina dei martiri” per i roghi, le crocifissioni, le morti in acqua gelata e tutto quel che la fantasia orientale, maestra nell’infliggere tormenti, escogitava via via. I cristiani locali entrarono nelle catacombe e continuarono a venerare le loro icone camuffandole sotto immagini di divinità pagane: per esempio, la Madonna divenne la dea Amaterasu. Nel 1640 il cristianesimo giapponese era ufficialmente estinto. Solo nel XIX secolo, sotto la minaccia delle cannoniere americane del commodoro Perry, il Giappone consentì a riaprirsi ai traffici occidentali e all’invio di missionari. Molti di questi rimasero stupiti di trovare ancora cristiani. E ancor più si stupirono quando questi li sottoposero a un esame di “cattolicità”. Infatti, gli indigeni si erano tramandati di padre in figlio una perfetta distinzione tra cattolicesimo e protestantesimo. Ma facciamo un passo indietro e torniamo a Nagasaki. A circa settanta chilometri dalla città sta una penisoletta, Shimabara, su cui sorgeva una fortezza chiamata Hara. Nel 1577, sfidando le leggi imperiali, il daimyo locale e tutta la cittadinanza avevano chiesto il battesimo. Erano seguiti vent’anni di mattanza e, alla fine, Shimabara era stata assegnata al nemico giurato del cristianesimo giapponese, Matsukura. Costui si ritrovò a signoreggiare una zona ostile (per questo avevano mandato proprio lui), diventata il punto di confluenza di tutti i cristiani perseguitati altrove. Soprattutto di ronin. Veniva detto ronin un samurai che non aveva più un signore al cui servizio combattere. Sorta di cavalieri di ventura, vagavano alla ricerca di ingaggio. Quelli di Shimabara erano rimasti disoccupati perché cristiani. Ora, la situazione da quelle parti era, sì, pesante ma non solo per i credenti. In Giappone le tasse gravavano sui soli contadini ed erano una pletora: sulle porte, sulle mensole, su ogni fuoco, perfino sulle nascite e le morti. Il pagamento doveva venire effettuato in riso, cosa che rendeva la semicarestia perenne. Gli evasori venivano ricoperti da un mantello di fibra vegetale, il mino; poi, legate loro le braccia, si appiccava il fuoco, così che quei disgraziati, saltando e contorcendosi, erano costretti a prodursi nel mino odori, il “ballo del mino”. La punizione colpiva anche le famiglie: mogli e figlie, denudate, venivano tenute immerse nell’acqua gelida fino alla morte. Nell’anno 1637 la fame era giunta a livelli insopportabili. Due capi di villaggio (shoya, ex guerrieri ritiratisi dall’attività) provarono a protestare ma ebbero, uno, la moglie incinta uccisa col sistema dell’acqua; l’altro, la figlia esposta nuda e poi marchiata con ferri roventi. Il giorno precedente alla festa cristiana dell’Ascensione un contadino vide che attorno all’icona che venerava di nascosto si era materializzata una fastosa cornice. Attirati dal miracolo pa­recchi cristiani si portarono nella sua casa. Ma la notizia si sparse e arrivarono le guardie. Tutti i presenti vennero presi e giustiziati. Era troppo. Il giorno dopo, i cristiani uscirono allo scoperto e piantarono al centro della piazza una grande bandiera bianca con una croce rossa sopra. Anche i pagani si unirono alla protesta perché per la mentalità giapponese le motivazioni religiose erano più nobili di quelle fiscali. Quando il responsabile dell’ordine pubblico sopraggiunse finì linciato e scoppiò la rivolta. Duecento ronin e parecchi shoya ripresero le armi e dilagarono per i villaggi. Elessero come loro capo il giovane Amakusa Shiro per due motivi. Il primo era questo: era figlio di Masuda Yoshitsegu, grandissimo guerriero diven­tato famoso al tempo delle guerre che avevano dato il potere ai Togukawa; veniva chiamato col nome leggendario di Amakusa Jinbei. Masuda, che era cristiano, aveva disobbedito agli editti persecutori e si era messo a percorrere il Giappone predicando Cristo. Naturalmente, nessuno osava affrontarlo. Girava portandosi dietro il figlioletto dentro una specie di carrozzina di legno (la sua figura ha ispirato una serie di telefilm). Il secondo motivo che indicava Shiro come leader era una strana profe­zia: un gesuita, espulso dal Giappone venticinque anni prima, aveva lasciato una specie di poesia diventata ben nota fra i cristiani giapponesi: in essa era predetto l’arrivo di un ragazzo ame no tsukai “inviato dal Cielo”, che avrebbe riscattato la fede in quelle terre. Infatti, il giovanissimo Shiro aveva seguito le orme paterne come predicatore. Quando la faccenda si fece seria, il bakufu di Edo (la capitale imperiale, oggi si chiama Tokio) inviò le truppe al comando dello shogun Itakura Shigemasa. Poi fece arrestare e torturare la madre e le sorelle di Shiro. Appena la notizia dell’arrivo degli imperiali giunse al campo dei ribelli, Shiro chiese a tutti quelli che volevano resistere di seguirlo nel castello di Hara. Così, oltre cinquantamila persone, con donne e bambini, si asserragliarono nella fortezza e attesero. Non c’era alternativa: le uniche armi a disposizione erano quelle, leggere, dei ronin, mentre il nemico aveva anche i cannoni. Gli spalti si riempirono di crocifissi, di stendardi bianchi con la croce, di bandiere con Sanchiyago, San fu­ranshisuko, Marya, Yesu (s. Giacomo, s. Francesco, Maria e Gesù). Ogni tre giorni Shiro riuniva tutti nella piazza d’armi e pronunciava un’esortazione religiosa da omoikiritaru kirishitan (“cristiano devoto”) in vista del gosho (la vita eterna). Nel frattempo, i governativi incendiavano tutti i villaggi attorno e ne sterminavano gli abitanti. Quando ebbero fatto terra bruciata attorno ad Hara, cominciò l’assedio vero e proprio. Centomila soldati, agli ordini di vari signori (tra cui Matsukura), si accamparono attorno mentre venivano apprestate le torri d’assedio. Lo spettacolo era in stile: nel campo degli imperiali, risse, duelli, uccisioni a causa delle rispettive rivalità di appartenenza feudale; in quello assediato si sentivano solo inni e preghiere corali. I cristiani avrebbero potuto fare strage degli operai costretti dalle corvées obbligatorie a scavare ed erigere terrapieni. Invece si limitarono a far piovere nel campo nemico yabumi, frecce con fogli arrotolati attorno, ove spiegavano per iscritto le loro ragioni. Della pietà cristiana nei confronti dei poveracci forzati a lavorare sotto le mura cercarono di trarre profitto gli imperiali: un centinaio di ninjutsukai (“uomini invisibili”, gli assassini di professione che il cinema ha mitizzato col nome di ninja) si introdussero, col favore delle tenebre, nel castello. Ma ne tornarono solo due. Non solo. In un paio di riprese gli assediati riuscirono, con sortite micidiali, a portare scompiglio nel campo avversario. A quel punto intervenne Matsudaira Nobutsuma, il luogotenente dell’imperatore, che guidò personalmente i rinforzi. Incredibilmente anche questo nuovo attacco venne respinto. L’infuriato Shigemasa allora ordinò l’attacco generale che volle condurre in prima fila. Finì ucciso insieme a quattromila dei suoi uomini migliori. Ormai la situazione era grottesca: un esercito sterminato non riusciva ad aver ragione di un pugno di contadini praticamente senza armi. Il disonore era assicurato e tutti gli occhi dell’arcipelago erano puntati su Shimbara. Per salvare la faccia l’imperatore concesse clemenza e il perdono per chi si fosse arreso. Aggiunse anche la promessa di una generosa distribuzione di riso. Ma quelli fecero sapere che volevano solo una cosa: poter professare liberamente la loro religione così come era permesso ai buddhisti, ai taoisti, ai confuciani e agli shintoisti. L’imperatore, che non poteva permettersi di rimangiarsi il suo editto, fece tornare le trattative in alto mare. Già, il mare. Proprio da quella parte arrivò il pericolo. I mercanti olandesi, protestanti, furono ingiunti di fornire man forte agli imperiali se volevano continuare a commerciare col Giappone. Così, il balivo Nicolaus Couckebaker mandò una nave a cannoneggiare Hara per due settimane di fila. Quando gli spalti furono completamente smantellati e gran parte delle mura erano crollate, vennero portate avanti, legate, la madre e le sorelle di Shiro. Era l’ultima offerta. Che fu rifiutata. Partì l’assalto finale, che durò due giorni e due notti. Ormai quasi tutti i ronin erano morti e così gli shoya. Anche il cibo era finito da un pezzo. L’ultima resistenza fu disperata: i cristiani, anche le donne e i feriti, combatterono con quel che avevano sottomano, scodelle, bastoni, sedie. Nessuno sopravvisse. La spiaggia si ricoprì di undicimila pali su cui stavano conficcate altrettante teste. Le rimanenti vennero ammassate su tre navi, insieme ai nasi tagliati delle donne, per essere portate come trofeo a Edo. Ma gli imperiali avevano perso oltre settantamila uomini armati, addestrati e per­fettamente equipaggiati. La penisola venne colonizzata da confuciani e buddhisti mentre il Giappone entrava nel sakoku, la chiusura di due secoli al mondo esterno. Purtroppo, per Nagasaki (e Hiroshima) non sarebbe stato, quello, l’ultimo martirio.
  13. snorri

    Samurai cristiani

    Sempre su tale argomento ho trovato questo interessante articolo dal sopracitato libro di Camillari: La resistenza dimenticata dei samurai cristiani di Rino Cammilleri Giappone, anno 1637: guidati da Amakusa Shiro, un samurai di 16 anni, cinquantamila cattolici resistono eroicamente nel castello di Hara per tre mesi all’assedio dell’esercito imperiale. Non sopravviverà nessuno. In Occidente nessuno sa praticamente nulla della storia del cristianesimo giapponese. Neanche i cristiani e, figurarsi, i cattolici (sebbene il crìstianesimo giapponese coincida quasi interamente col cattolicesimo romano). A parte un lontano libro del 1959 di Jean Monsterleet edito dalle Paoline e uno di lvan Morris (del 1975 ma tradotto in italiano da Guanda nel 1983), nessuno ha mai raccontato quel che andiamo a raccontare. Nel primo libro (Storia della Chiesa in Giappone) vi si fa un cenno. Il secondo, che parla d’altro (La nobiltà della sconfitta), vi dedica un capitolo (dal quale attingiamo in mancanza d’altro). Ma la storia dei samurai cristiani di Shimabara è una delle più eroiche di tutti i tempi e ancora oggi i giapponesi le tributano la cosiddetta simpatia hoganbijki, che i leali nipponici riservano al valore sfortunato. Negli anni Sessanta un famoso attore del teatro kabuki era convinto di essere la reincarnazione dell’eroe di quella vicenda, Amakusa Shiro, il samurai sedicenne a cui fu dedicata anche una canzone che nel decennio successivo scalò le classifiche. Nell’immaginario dei giovani, da quelle parti, Amakusa Shiro tiene il posto che fu di Garibaldi per i nonni degli italiani e di Che Guevara per i “libertari” odierni. Il cristianesimo sbarcò in Giappone nel 1549 con s. Francesco Saverio, braccio destro di s. Ignazio di Loyola. Non ancora quarantenne, questo gesuita aveva convertito da solo quasi un milione di persone in Oriente. Accompagnato da un interprete, predicava sulle piazze il Vangelo di Matteo, che aveva imparato a memoria in giapponese. La diffidenza iniziale si tramutò in curiosità quando un astante sputò in faccia al suo compagno. Questi si asciugò rimanendo impassibile. Il fatto colpì i giapponesi, che apprezzavano moltissimo il dominio di sé. Col tempo, il santo si rese conto che erano i suoi abiti dimessi a destare disprezzo. Così, si procurò un abito più degno e l’avventura cominciò. In pochi anni il cristianesimo in versione cattolica divenne una presenza di tutto rispetto in Giappone. Il Kyushu era interamente kirishitan, cristiano, con epi­centri nelle città di Hiroshima e Nagasaki, e la cosa andava avanti con crescita esponenziale. Fino a quando certi trafficanti europei, protestanti, instillarono nei regnanti della dinastia Togukawa il sospetto che la penetrazione religiosa del cattolicesimo fosse solo il prodromo di qualcosa di peggio, dal punto di vista politico, da parte degli imperi spagnolo e portoghese. Gli editti persecutori non tardarono e Nagasaki divenne famosa come “la collina dei martiri” per i roghi, le crocifissioni, le morti in acqua gelata e tutto quel che la fantasia orientale, maestra nell’infliggere tormenti, escogitava via via. I cristiani locali entrarono nelle catacombe e continuarono a venerare le loro icone camuffandole sotto immagini di divinità pagane: per esempio, la Madonna divenne la dea Amaterasu. Nel 1640 il cristianesimo giapponese era ufficialmente estinto. Solo nel XIX secolo, sotto la minaccia delle cannoniere americane del commodoro Perry, il Giappone consentì a riaprirsi ai traffici occidentali e all’invio di missionari. Molti di questi rimasero stupiti di trovare ancora cristiani. E ancor più si stupirono quando questi li sottoposero a un esame di “cattolicità”. Infatti, gli indigeni si erano tramandati di padre in figlio una perfetta distinzione tra cattolicesimo e protestantesimo. Ma facciamo un passo indietro e torniamo a Nagasaki. A circa settanta chilometri dalla città sta una penisoletta, Shimabara, su cui sorgeva una fortezza chiamata Hara. Nel 1577, sfidando le leggi imperiali, il daimyo locale e tutta la cittadinanza avevano chiesto il battesimo. Erano seguiti vent’anni di mattanza e, alla fine, Shimabara era stata assegnata al nemico giurato del cristianesimo giapponese, Matsukura. Costui si ritrovò a signoreggiare una zona ostile (per questo avevano mandato proprio lui), diventata il punto di confluenza di tutti i cristiani perseguitati altrove. Soprattutto di ronin. Veniva detto ronin un samurai che non aveva più un signore al cui servizio combattere. Sorta di cavalieri di ventura, vagavano alla ricerca di ingaggio. Quelli di Shimabara erano rimasti disoccupati perché cristiani. Ora, la situazione da quelle parti era, sì, pesante ma non solo per i credenti. In Giappone le tasse gravavano sui soli contadini ed erano una pletora: sulle porte, sulle mensole, su ogni fuoco, perfino sulle nascite e le morti. Il pagamento doveva venire effettuato in riso, cosa che rendeva la semicarestia perenne. Gli evasori venivano ricoperti da un mantello di fibra vegetale, il mino; poi, legate loro le braccia, si appiccava il fuoco, così che quei disgraziati, saltando e contorcendosi, erano costretti a prodursi nel mino odori, il “ballo del mino”. La punizione colpiva anche le famiglie: mogli e figlie, denudate, venivano tenute immerse nell’acqua gelida fino alla morte. Nell’anno 1637 la fame era giunta a livelli insopportabili. Due capi di villaggio (shoya, ex guerrieri ritiratisi dall’attività) provarono a protestare ma ebbero, uno, la moglie incinta uccisa col sistema dell’acqua; l’altro, la figlia esposta nuda e poi marchiata con ferri roventi. Il giorno precedente alla festa cristiana dell’Ascensione un contadino vide che attorno all’icona che venerava di nascosto si era materializzata una fastosa cornice. Attirati dal miracolo pa­recchi cristiani si portarono nella sua casa. Ma la notizia si sparse e arrivarono le guardie. Tutti i presenti vennero presi e giustiziati. Era troppo. Il giorno dopo, i cristiani uscirono allo scoperto e piantarono al centro della piazza una grande bandiera bianca con una croce rossa sopra. Anche i pagani si unirono alla protesta perché per la mentalità giapponese le motivazioni religiose erano più nobili di quelle fiscali. Quando il responsabile dell’ordine pubblico sopraggiunse finì linciato e scoppiò la rivolta. Duecento ronin e parecchi shoya ripresero le armi e dilagarono per i villaggi. Elessero come loro capo il giovane Amakusa Shiro per due motivi. Il primo era questo: era figlio di Masuda Yoshitsegu, grandissimo guerriero diven­tato famoso al tempo delle guerre che avevano dato il potere ai Togukawa; veniva chiamato col nome leggendario di Amakusa Jinbei. Masuda, che era cristiano, aveva disobbedito agli editti persecutori e si era messo a percorrere il Giappone predicando Cristo. Naturalmente, nessuno osava affrontarlo. Girava portandosi dietro il figlioletto dentro una specie di carrozzina di legno (la sua figura ha ispirato una serie di telefilm). Il secondo motivo che indicava Shiro come leader era una strana profe­zia: un gesuita, espulso dal Giappone venticinque anni prima, aveva lasciato una specie di poesia diventata ben nota fra i cristiani giapponesi: in essa era predetto l’arrivo di un ragazzo ame no tsukai “inviato dal Cielo”, che avrebbe riscattato la fede in quelle terre. Infatti, il giovanissimo Shiro aveva seguito le orme paterne come predicatore. Quando la faccenda si fece seria, il bakufu di Edo (la capitale imperiale, oggi si chiama Tokio) inviò le truppe al comando dello shogun Itakura Shigemasa. Poi fece arrestare e torturare la madre e le sorelle di Shiro. Appena la notizia dell’arrivo degli imperiali giunse al campo dei ribelli, Shiro chiese a tutti quelli che volevano resistere di seguirlo nel castello di Hara. Così, oltre cinquantamila persone, con donne e bambini, si asserragliarono nella fortezza e attesero. Non c’era alternativa: le uniche armi a disposizione erano quelle, leggere, dei ronin, mentre il nemico aveva anche i cannoni. Gli spalti si riempirono di crocifissi, di stendardi bianchi con la croce, di bandiere con Sanchiyago, San fu­ranshisuko, Marya, Yesu (s. Giacomo, s. Francesco, Maria e Gesù). Ogni tre giorni Shiro riuniva tutti nella piazza d’armi e pronunciava un’esortazione religiosa da omoikiritaru kirishitan (“cristiano devoto”) in vista del gosho (la vita eterna). Nel frattempo, i governativi incendiavano tutti i villaggi attorno e ne sterminavano gli abitanti. Quando ebbero fatto terra bruciata attorno ad Hara, cominciò l’assedio vero e proprio. Centomila soldati, agli ordini di vari signori (tra cui Matsukura), si accamparono attorno mentre venivano apprestate le torri d’assedio. Lo spettacolo era in stile: nel campo degli imperiali, risse, duelli, uccisioni a causa delle rispettive rivalità di appartenenza feudale; in quello assediato si sentivano solo inni e preghiere corali. I cristiani avrebbero potuto fare strage degli operai costretti dalle corvées obbligatorie a scavare ed erigere terrapieni. Invece si limitarono a far piovere nel campo nemico yabumi, frecce con fogli arrotolati attorno, ove spiegavano per iscritto le loro ragioni. Della pietà cristiana nei confronti dei poveracci forzati a lavorare sotto le mura cercarono di trarre profitto gli imperiali: un centinaio di ninjutsukai (“uomini invisibili”, gli assassini di professione che il cinema ha mitizzato col nome di ninja) si introdussero, col favore delle tenebre, nel castello. Ma ne tornarono solo due. Non solo. In un paio di riprese gli assediati riuscirono, con sortite micidiali, a portare scompiglio nel campo avversario. A quel punto intervenne Matsudaira Nobutsuma, il luogotenente dell’imperatore, che guidò personalmente i rinforzi. Incredibilmente anche questo nuovo attacco venne respinto. L’infuriato Shigemasa allora ordinò l’attacco generale che volle condurre in prima fila. Finì ucciso insieme a quattromila dei suoi uomini migliori. Ormai la situazione era grottesca: un esercito sterminato non riusciva ad aver ragione di un pugno di contadini praticamente senza armi. Il disonore era assicurato e tutti gli occhi dell’arcipelago erano puntati su Shimbara. Per salvare la faccia l’imperatore concesse clemenza e il perdono per chi si fosse arreso. Aggiunse anche la promessa di una generosa distribuzione di riso. Ma quelli fecero sapere che volevano solo una cosa: poter professare liberamente la loro religione così come era permesso ai buddhisti, ai taoisti, ai confuciani e agli shintoisti. L’imperatore, che non poteva permettersi di rimangiarsi il suo editto, fece tornare le trattative in alto mare. Già, il mare. Proprio da quella parte arrivò il pericolo. I mercanti olandesi, protestanti, furono ingiunti di fornire man forte agli imperiali se volevano continuare a commerciare col Giappone. Così, il balivo Nicolaus Couckebaker mandò una nave a cannoneggiare Hara per due settimane di fila. Quando gli spalti furono completamente smantellati e gran parte delle mura erano crollate, vennero portate avanti, legate, la madre e le sorelle di Shiro. Era l’ultima offerta. Che fu rifiutata. Partì l’assalto finale, che durò due giorni e due notti. Ormai quasi tutti i ronin erano morti e così gli shoya. Anche il cibo era finito da un pezzo. L’ultima resistenza fu disperata: i cristiani, anche le donne e i feriti, combatterono con quel che avevano sottomano, scodelle, bastoni, sedie. Nessuno sopravvisse. La spiaggia si ricoprì di undicimila pali su cui stavano conficcate altrettante teste. Le rimanenti vennero ammassate su tre navi, insieme ai nasi tagliati delle donne, per essere portate come trofeo a Edo. Ma gli imperiali avevano perso oltre settantamila uomini armati, addestrati e per­fettamente equipaggiati. La penisola venne colonizzata da confuciani e buddhisti mentre il Giappone entrava nel sakoku, la chiusura di due secoli al mondo esterno. Purtroppo, per Nagasaki (e Hiroshima) non sarebbe stato, quello, l’ultimo martirio.
  14. snorri

    Salve a tutti!

    Benvenuto
  15. snorri

    nipponico.com

    Neanche io riesco a collegarmi
  16. Troppo bella la prima lama , complimenti, Cesare siamo in due
  17. snorri

    Shinken da Tokio anonime

    Ritornando a Tozando tempo fà chiesi un preventivo per un Waki , mi risposero che ci voleva un anno per la spada forgiata in Giappone da maestri spadai , sul sito vi è anche una parte dedicata alle spade da pratica prodotte in Europa " Germania" queste ultime le trovo molto simili alla mia che utilizzo per tali scopi prodotta da una ditta Tedesca , non capisco tale scelta commerciale visto che i due prodotti non sono paragonabili .
  18. Grazie Attila , li leggerò con molto interesse
  19. Attila molto bello quello che dici , dalle tue parole comprendo che il kyudo sia più un arte una disciplina per la vita , molto spirituale , magari potresti creare un post descrivendone le caratteristiche filosofiche e mentali che vengono temprate in tale arte , a me interesserebbe molto.
  20. snorri

    Quale Katana?

    Nicola , mi sembra che tu abbia un po di idee confuse , mi spiego : Vuoi una katana per far pratica con la k maiuscola , quelle utilizzate per tale funzione per la maggiore son tutte repliche adatte allo scopo e qui di repliche non si parla ,poi ci sono le moderne shinken forgiate da maestri Giapponesi e non credo che ci sia nessuno che sborzerebbe 5000€ per poi far pratica con tale lama" tranne un maestro esperto ovviamente " Poi ci son le nihonto e sarebbe un delitto utilizzare tale Katana per tali scopi .
  21. Ed io che volevo acquistare una lama da 30.000€ da ebay
  22. Credo che le regole riguardino ebay Italia , i giapponesi continuano a vendere katana

Chi è I.N.T.K.

La I.N.T.K. – Itaria Nihon Tōken Kyōkai (Associazione italiana per la Spada Giapponese) è stata fondata a Bologna nel 1990 con lo scopo di diffondere lo studio della Tōken e salvaguardarne il millenario patrimonio artistico-culturale, collaborando con i maggiori Musei d’Arte Orientale ed il collezionismo privato. La I.N.T.K. è accreditata presso l’Ambasciata Giapponese di Roma, il Consolato Generale del Giappone di Milano, la Japan Foundation in Roma, la N.B.T.H.K. di Tōkyō. Seminari, conferenze, visite guidate a musei e mostre, viaggi di studio in Europa e Giappone, consulenze, pubblicazioni, il bollettino trimestrale inviato gratuitamente ai Soci, sono le principali attività della I.N.T.K., apolitica e senza scopo di lucro.

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